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Comunicare l’accoglienza raccontando il territorio: l’esperienza della Valle di Susa

Comunicare l’accoglienza raccontando il territorio: l’esperienza della Valle di Susa

Come si può raccontare la “buona accoglienza”? Secondo gli operatori della Cooperativa Frassati narrazioni generative possono facilitare l’inclusione dei minori stranieri non accompagnati

In questo articolo, ci interessa ripercorrere alcuni dei temi di cui ci siamo occupati come Percorsi di secondo welfare nel corso degli ultimi tre anni nell’ambito del progetto Interreg Italia Svizzera Minplus. In questa cornice ci siamo infatti occupati di modelli di governance della “buona accoglienza” di richiedenti e minori stranieri non accompagnati (MSNA) e, più di recente, abbiamo iniziato a occuparci di comunicazione relativa al tema dell’accoglienza. Nel nostro percorso di approfondimento su accoglienza diffusa e comunicazione, ci siamo imbattuti in concetti quali “narrazioni generative”, storytelling e welfare di prossimità. Ma quali sono i nessi tra “buona accoglienza”, “narrazioni generative” e “welfare di prossimità”? Proverò a ricostruire il filo dei nostri ragionamenti, a partire dalle buone pratiche di accoglienza in Valle di Susa e dall’esperienza della cooperativa Frassati.

Le reti multi-attore nell’accoglienza diffusa

Nelle conclusioni del nostro rapporto di ricerca “La governance dell’accoglienza di richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati. Buone pratiche dal Canton Ticino al Piemonte” abbiamo evidenziato – tra gli altri – uno degli elementi che ci è apparso necessario per favorire percorsi di inclusione di richiedenti asilo e MSNA: la creazione sul territorio di reti multi-attore, che comprendono solitamente i servizi sociali e le organizzazioni del Terzo Settore più radicate sul territorio.

Attraverso il coinvolgimento di queste reti, i progetti di accoglienza e integrazione possono connettersi più virtuosamente nel welfare locale, evitando il rischio di dare luogo a una sorta di “welfare parallelo” non funzionante. L’importanza dell’integrazione delle politiche di accoglienza nel welfare locale è sottolineata dalla ricerca scientifica, si legga ad esempio questa interessante intervista al professor Marco Accorinti sul sito di Openpolis.

Per favorire l’inclusione bisogna fare il contrario di quanto avvenuto nei numerosi casi di “cattiva accoglienza” rappresentata dalla concentrazione di un numero elevato di migranti in grandi centri in assenza di misure e interventi volti a favorire l’inclusione nel territorio circostante. Ciò è purtroppo avvenuto in molte aree del Paese nell’ambito dell’accoglienza straordinaria (i cosiddetti CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria). Ma non dappertutto: in alcune parti del Paese si sono realizzate forme di collaborazione tra attori pubblici e privati, spesso grazie al protagonismo dei servizi sociali e del Terzo Settore radicato sul territorio. Queste forme di collaborazione sono state fondamentali per rimodellare l’accoglienza straordinaria sul modello dell’accoglienza diffusa e integrata nel welfare locale territoriale.

Anche nel caso dei MSNA e dei neomaggiorenni (ex MSNA) la collaborazione e il gioco di squadra sono apparsi fondamentali per favorire il difficile passaggio alla vita adulta e una effettiva inclusione. La rete in questo caso è forse ancora più ampia, e include i servizi sociali, le comunità, le scuole, i Cpia, l’associazionismo, le relazioni amicali e informali, diverse figure professionali come gli educatori, gli assistenti sociali, i tutor, i mediatori culturali. Anche in questo caso torna l’idea di rete multi-attore; per questa ragione il discorso sull’accoglienza diffusa dei richiedenti asilo e sulle buone pratiche di inclusione di MSNA si tengono insieme.


Come raccontare la “buona accoglienza”?

Ma come si racconta tutto questo? La comunicazione è un tema particolarmente spinoso e delicato quando associato ai migranti, ma è allo stesso tempo molto rilevante. Anche per questa ragione, Secondo Welfare se ne sta occupando insieme a Filos Formazione di Novara nell’ambito del già citato progetto Interreg Minplus.

Diversi interventi di Paolo Moroni pubblicati su questo sito hanno evidenziato come sul tema delle migrazioni, prevalga in Italia (ma anche in Svizzera ad esempio), una narrazione incentrata sul frame dell’emergenza e sulla minaccia alla sicurezza. La distanza tra questi frame e la realtà oggettiva è dimostrata dai numeri e dai dati, come di recente ricordato dal sociologo Maurizio Ambrosini: l’Italia è uno degli ultimi paesi in Europa per numero di richieste di asilo. Eppure, forse solo in tempi di pandemia i media hanno dato meno risalto ai flussi di migranti verso il nostro Paese.

Negli anni recenti, si è assistito a una campagna d’odio verso le ONG che lavorano nel Mar Mediterraneo per prestare soccorso ai migranti. Tutte queste ragioni spingono a interrogarci insieme ai nostri testimoni privilegiati (che rappresentano attori del pubblico e del privato impegnati nelle buone pratiche di accoglienza sul territorio): come si parla di accoglienza? come si parla nell’accoglienza?

Una riflessione quanto mai necessaria, considerato che gli attori del Terzo Settore svolgono sotto traccia un ruolo di imprenditori discorsivi sul tema dell’inclusione dei migranti, come riconosciuto dalla letteratura. Ed è proprio di questo tema, che abbiamo voluto discutere con la Cooperativa Frassati, protagonista di diverse esperienze di buona accoglienza raccontata nel nostro report, qui ci siamo focalizzati in particolare sull’esperienza del progetto Doman Ansema.


Spunti di riflessione a partire dall’esperienza valsusina

A questo scopo abbiamo incontrato Valentino Casalicchio, Project Manager di Doman Ansema, ed Eleonora Girardi, educatrice della comunità di seconda accoglienza di Salbertrand, entrambi della Cooperativa Frassati. È passato più di un anno e mezzo da quando avevamo pubblicato questo articolo su Doman Ansema, un progetto volto all’inclusione sociale, lavorativa e abitativa di MSNA e neomaggiorenni (ex MSNA) in Valle di Susa, al quale la Cooperativa partecipa in qualità di capofila.

Il progetto Doman Ansema finanziato nell’ambito del bando Never Alone ha attraversato la tormenta dell’emergenza sanitaria raggiungendo, nonostante la pandemia, risultati importanti: 25 tirocini, 13 inserimenti al lavoro con contratto, 9 inserimenti abitativi, per un numero di 35 beneficiari del progetto.

Eleonora ci racconta come all’inizio della pandemia si siano bloccati i percorsi d’inserimento e come in seguito ci si sia sforzati di adattarsi alla nuova normalità. Nei periodi di crisi nonostante le difficoltà emergono nuove idee. E con questa premessa che discutiamo del tema della comunicazione. Negli anni il lavoro volto all’inclusione si è avvalso del radicamento sul territorio della cooperativa, della capacità di valorizzare reti di solidarietà formali e informali, e della capacità di sperimentare iniziative volte a favorire l’interazione tra la popolazione locale e gli stranieri.

Si pensi all’iniziativa Indovina chi viene a cena che ha visto le famiglie ospitare a cena un richiedente asilo (o viceversa), si pensi alla collaborazione della radio locale Radio Dora nel pubblicizzare eventi di questo genere. Queste modalità di comunicazione hanno certamente accompagnato percorsi di inclusione sociale e lavorativa (come l’inserimento in tirocinio poi trasformato nei casi di successo in un contratto di lavoro). Queste attività di comunicazione hanno fatto ricorso a vari canali: in primo luogo il passaparola, ma anche la radio locale e i social network. Ai fini dell’inserimento lavorativo  si è fatto ricorso al passaparola e alla comunicazione diretta, spesso portando ad esempio l’esperienza di imprenditori del territorio che hanno spesso svolto un ruolo di intermediari.


Le narrazioni alternative

Le parole di Valentino ed Eleonora possono essere accostate al discussion paper relativo alle “narrazioni alternative” redatto da due studiosi, Albert Neidhart e Paul Butcher, e realizzato nell’ambito di un programma di ricerca europeo promosso dalla Foundation for European Progressive Studies insieme a Friedrich Ebert-Stiftung, Fundación Pablo Iglesias ed European Policy Center. Questo documento descrive i tratti salienti delle “narrazioni alternative”, più efficaci secondo gli autori, delle “contro-narrazioni” nel favorire un clima di accoglienza nei confronti dei migranti.

Mentre le “contro-narrazioni” consistono nel controbattere direttamente ai discorsi di odio senza riuscire davvero a disinnescarli, le “narrazioni alternative” spostano il dibattito all’interno di nuovi frame, distogliendo l’attenzione dai propagatori di odio e paure. Le “narrazioni alternative” hanno tre caratteristiche fondamentali legate al messaggio, al medium e all’audience: il messaggio è semplice e basato sulle esperienze di vita; il medium è rappresentato da intermediari considerati credibili e degni di fiducia; l’audience è costituita da quell’area di popolazione non radicalizzata sul tema delle migrazioni e quindi da quella ampia fascia di popolazione senza solidissimi pregiudizi; il messaggio si inserisce all’interno di semplici meta-narrazioni.

In un certo senso, potremmo dire che nel quadro delle buone pratiche di accoglienza diffusa gli attori del Terzo Settore operino sottotraccia per promuovere narrazioni alternative, ad esempio diffondendo un semplice messaggio: l’accoglienza e l’inclusione sono possibili se presidiate da qualità, professionalità e coinvolgono il territorio; fanno riferimento ad esperienze di vita (come percorsi di inclusione realmente avvenuti nel territorio); fanno ricorso a intermediari come imprenditori e famiglie che raccontano la propria esperienza; si iscrivono in una meta-narrazione basata sul senso di comunità e prossimità (intesi in senso inclusivo). Un forte stimolo verso questa direzione viene proprio da bandi come Never Alone e dall’azione delle fondazioni bancarie che si sono impegnate nel promuovere un cambio di narrazione in tema di migrazioni.


Narrare genera inclusione?

Ci si può interrogare sul peso che diverse variabili possono assumere nel determinare il successo dell’accoglienza diffusa e delle narrazioni alternative: il clima politico, l’attivismo della società civile, la storia e le condizioni socioeconomiche dei vari territori. La Valle di Susa, va ricordato, rappresenta un valico verso la Francia è da tempo interessata dal fenomeno dei flussi migratori attorno al quale si è mobilitata una società civile non ostile al fenomeno, ma spesso spinta da forti sentimenti di solidarietà. In questo milieu trovano spazio sperimentazioni e innovazioni.

Infatti, un altro concetto può aiutarci ad illuminare l’esperienza della Cooperativa Frassati, come quella di molti altri attori impegnati nell’ambito dell’accoglienza e del welfare di prossimità: le “narrazioni generative”. La cooperativa Frassati, infatti, in stretta sinergia con la Rete Italiana Cultura Popolare ha ulteriormente rinnovato l’approccio alla comunicazione: la Cooperativa ha aderito all’esperienza del Portale dei Saperi, scegliendo di non concentrarsi esclusivamente sui beneficiari dell’accoglienza ma sulla narrazione dell’intero territorio di cui i ragazzi stranieri e le ragazze straniere fanno parte insieme a tutte gli altri. In questo senso, imprenditori di diversa origine, lavoratrici e lavoratori, abitanti, minori stranieri e adulti raccontano il territorio in cui abitano e vivono attraverso le loro storie. Nelle intenzioni di chi lavora per promuovere queste progettualità il coinvolgimento in questa esperienza collettiva di storytelling è essa stessa generativa di comunità e solidarietà.

Nell’ambito della ricerca esplorativa sulle modalità comunicative delle organizzazioni impegnate in progetti di buona accoglienza, ci è parso di cogliere alcuni spunti di riflessione: la comunicazione riveste un ruolo di primo piano nelle pratiche quotidiane degli operatori, non sempre però le organizzazioni hanno sistematizzato un preciso approccio al tema. Le organizzazioni del Terzo Settore più spesso svolgono un lavoro comunicativo sottotraccia che assume diverse forme. Possiamo provare a individuare due idealtipi: il fare silenzioso da una parte e dall’altra il narrare generativo. Nel primo caso si cerca di evitare il clamore e di richiamare l’attenzione, nel secondo caso si immagina la comunicazione come parte di un processo generativo di inclusione. In mezzo ci sono tante esperienze diverse con differenti sfumature. Un nesso però emerge chiaramente tra accoglienza, comunicazione e welfare di prossimità: si possono favorire percorsi di inclusione solo rigenerando senso di comunità e coesione tra tutti.

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